Mezzanotte e cinque a Bhopal

Mezzanotte e cinque a Bhopal di Dominique Lapierre

Questo libro racconta con grande semplicità uno dei tanti disastri ecologici del ventesimo secolo.

Da sempre milioni di contadini indiani fanno i conti con il tempo e con il clima; un monsone che non arriva o che arriva in ritardo significa carestia e allora bisogna emigrare alla ricerca, spesso vana, di un lavoro.

Oltre che con i capricci delle stagioni i contadini devono lottare contro altri subdoli nemici: gli insetti e i parassiti possono essere devastanti e rovinare interi raccolti in modo irreparabile.

L’Union Carbide. Mezzanotte e cinque a Bhopal

La multinazionale americana Union Carbide negli anni ’70 inventa il Sevin, un potentissimo pesticida, e fin da subito capisce che l’India è la nazione ideale per impiantare una fabbrica di produzione di questo nuovo prodotto.

Per due motivi: anzitutto perché i contadini sono tanti e gli insetti che devastano le colture ancor di più e secondo perché la manodopera è abbondante e costa poco. Pochissimo.

Dunque un mercato enorme con costi di lavoro bassissimi.

Si decide di installare la fabbrica a Bhopal, nel cuore geografico dell’India.

Bhopal è una città tanto ricca culturalmente quanto povera dal punto di vista materiale; sono migliaia le persone che vivono ammassate in baracche lungo i binari della ferrovia, proprio sotto la famosa Spianata Nera, una grande distesa di terra all’interno della quale l’Union Carbide darà vita alla “Bella Fabbrica”.

Una benedizione per quanti vivono con meno di 20 centesimi di euro al giorno.

La concreta possibilità di avere un lavoro ben retribuito, con salde garanzie sindacali, è una manna dal cielo per chi è nato con il nulla tra le mani.

Alla fine saranno davvero tanti a lavorare per la “Bella Fabbrica”: sono anni in cui l’Union Carbide spinge al massimo la produzione nella speranza che i contadini acquistino in massa il prodotto miracoloso.

La crisi della “bella fabbrica”. Mezzanotte e cinque a Bhopal

Ma purtroppo l’Union Carbide non ha capito a fondo il mercato, anzi, forse non l’ha nemmeno studiato più di tanto.

Proprio in quegli anni l’andamento irregolare dei monsoni porta a terribili carestie in tutto il paese.

Le coltivazioni di riso saranno quelle che risentiranno di più della mancanza di acqua e, data la crisi, i coltivatori non avranno i soldi necessari per acquistare il Sevin, il quale, tra l’altro, in condizioni di quel tipo non servirebbe a nulla.

Una spirale di miseria contro cui nemmeno la potente multinazionale americana può fare qualcosa.

Alla prova dei fatti la “Bella Fabbrica” si discosterà sensibilmente dagli obiettivi iniziali: la produzione calerà drasticamente fin dai primi mesi e a farne le spese saranno proprio i lavoratori.

L’Union Carbide aveva fatto della safety, della sicurezza sul posto di lavoro, il perno della propria logica lavorativa.

Ma quando le cose vanno male si cerca di far economia un po’ su tutto e la sicurezza sul lavoro è spesso la prima a subire dei tagli.

Pian piano vengono disattivati i sistemi di allarme e di sicurezza; per risparmiare qualche chilo di carbone viene persino spenta la fiammella perenne posta sulla sommità di una ciminiera che avrebbe contrastato eventuali fughe tossiche.

E il degrado si percepisce anche all’interno dell’ambiente lavorativo: gli operai oziano e chi dovrebbe occuparsi di controllare le strumentazioni non lo fa o lo fa male.

Risultato? Un lavaggio mal eseguito dà il via ad una catena di eventi che porterà al disastro ambientale: l’acqua viene a contatto proprio con l’isocianato di metile, l’elemento indispensabile alla produzione del Sevin.

Tossico, pericolosissimo e inutilizzato, l’isocianato di metile era stato stoccato all’interno di grossi silos in attesa della ripresa produttiva.

Una potenziale bomba atomica che a contatto con l’acqua divenne effettiva.

Una fuoriuscita devastante, tossica senza termini di paragone, che ammazzò più di 15.000 persone praticamente all’istante.

E quei 15.000 furono i più fortunati.

Nelle successive ore i polmoni delle persone che vivevano nei dintorni della fabbrica bruciarono letteralmente fino a scoppiare.

É mezzanotte e cinque del 3 dicembre 1984.

L’inferno ha fatto visita a Bhopal: per le strade la gente vomita e muore soffocata e nessuno può farci niente.

Un’immensa coltre di fumo color antracite avvolge le gigantesche lingue di fuoco rosse e blu, le tibie incrociate sui teschi disegnati sui fusti del velenosissimo isocianato di metile risplendono alla luce di quell’inferno.

Bhopal a 35 anni di distanza

Oggi Bhopal è ancora altamente inquinata.

La “Bella Fabbrica”, spenta e arrugginita, è ancora là e centinaia di barili colmi di liquidi tossici sono sparpagliati lungo la Spianata Nera senza che nessuno faccia nulla.

L’Union Carbide, oggi proprietà della Dow Chemical, se n’è andata lasciando dietro di sé questa scia di orrore e devastazione.

Oggi la homepage della Dow Chemical recita che c’è bisogno di salvaguardare e amare il pianeta e campeggia una foto di acqua pulita che scende dal cielo.

Ma i poveri di Bhopal, tornati più poveri di prima, sentono la pelle e la gola bruciare.

Soprattutto quando piove.

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