Da cosa dipende la nostra felicità?
La felicità è dentro di noi?
Ci sono momenti in cui va tutto bene e ci si sente tristi, altri invece in cui la vita gira male, ma si è comunque felici.
Inizialmente mi sembrava un paradosso totalmente privo di agganci spirituali e significativi.
Poi, piano piano, attraverso la meditazione, l’introspezione e grazie ai miei numerosi viaggi in posti “insoliti”, ho capito qualcosa rispetto a questo misterioso meccanismo della nostra anima.
La felicità e la depressione sono legate solo in minima parte a ciò che ci capita.
La felicità è dentro di noi?
La felicità è dentro di noi; a dirlo è il Dalai Lama (e non solo lui).
Tutt’altro che una banalità, è un concetto sul quale riflettere molto a lungo, una riflessione che ti invito a fare con tutta la calma del caso.
É una frase che di solito non lascia segni, un pensiero che vola via rapido senza solidità.
In giro per il mondo ho visto persone felici con pochissimo: qualche pollo, un maialino, una piccola piantagione di qualcosa, una capanna, due giochi di legno male assemblati per i figli.
Ed è una felicità contagiosa, uno stato d’animo che emana vibrazioni positive anche per il viaggiatore.
Ricordo frotte di bambini sorridenti inseguirmi per un gesto di saluto fatto dalla motocicletta, altri tirarmi i capelli con dolcezza solo per avere un mio cenno.
I bambini del Laos, quelli del Vietnam, quelli della Cambogia, della Thailandia e della Birmania sorridono alla vita, non sembrano fare altro dalla mattina alla sera.
E il bello è che quando crescono non cambiano di una virgola.
Il Sud Est Asiatico, non solo in termini statistici, è un mondo di bambini, è un mondo di persone che guarda alla vita con la benedizione di una felicità che non richiede condimenti.
La violenza inconscia dell’Occidente
Viceversa in Occidente i bambini spesso lanciano sassi, torturano gli animali e deridono i diversi.
Non è in gioco il meglio e il peggio, non secondo me per lo meno: il bimbo Marco non è intrinsecamente più cattivo del bimbo Chai.
Ma se non intervengono i genitori, se non interviene la scuola, qualche maestro o qualche figura “forte”, il bambino occidentale cresce nella convinzione che la violenza sia necessaria e che la competizione sia il fulcro della vita.
Adesso che ho 45 anni nutro un amore profondo verso qualsiasi forma di vita: sono convinto che tutti gli animali, anche quelli che non mi piacciono esteticamente, abbiano lo stesso identico diritto alla vita che ho io.
Ma sai cosa facevo quando ero piccolo?
Prendevo le lucertole e mi divertivo ad affogarle in un secchio d’acqua.
Non mi sembrava una cattiveria, non ci vedevo nulla di male, non avevo la percezione della sofferenza e del peccato, laico o meno che fosse.
Inconsciamente (ma neanche tanto) mi pareva che la violenza fosse necessaria e quelle lucertole rappresentavano gli antagonisti di una competizione universale.
A scuola gli altri bambini mi picchiavano, ero lo “sfigato” di turno, ero la lucertola da affogare per il divertimento di tutti.
Dovevo pur riprodurre il mio stato di difesa, la mia vendetta, su qualcosa o qualcuno, visto che mi era impossibile replicare a dieci bambini incattiviti.
E me la prendevo con chi era ancora più “sfigato”, più piccolo e
più indifeso di me.
I bambini sono molto più ricettivi di quanto crediamo: assorbono tutto ciò che il loro contesto produce.
Quelli che mi picchiavano avevano visto il padre licenziato, la madre prendere schiaffi, una scena di sopraffazione, sentito il plauso meritorio per un uomo competitivo, percepito la negatività di un mancato sorriso.
E riproducevano quelle cose nel loro mondo.
In Occidente abbiamo troppo da perdere, cresciamo con la persistente convinzione di dover difendere qualcosa da qualcos’altro, mentre in Oriente, come in Africa, non c’è nulla da difendere e la condivisione è necessaria anche allo sviluppo individuale.
Non voglio passare come l'”illuminato” di turno: non sono buddhista, una religione per altro decisamente maschilista e all’atto pratico non scevra da violenze, non appartengo a religioni o filosofie particolari e non mi sento abbracciato da una verità assoluta.
Faccio meditazione tentando di applicare i precetti buddisti, ma non credo che questo faccia di me un buddista, così come il fatto di non aver mai rubato o ucciso non fa di me un cattolico.
Quando voglio stare meglio, quando sento il disagio crescere dentro di me, quando il cancro della depressione comincia a mordermi l’anima, il mio rifugio migliore è la povertà del Sud Est Asiatico.
Sono fermamente convinto che le troppe cose che abbiamo siano nemiche della nostra felicità. Le cose, spesso del tutto inutili, vanno protette, pagate, assicurate, vigilate, guardate, utilizzate.
E tutte queste futili responsabilità ci portano dritti dritti verso la frustrazione, l’anticamera della depressione.
Non ti sto consigliando di viaggiare a piedi nudi per il mondo abbandonando “il tuo castello”, in stile Siddharta. Una cosa che mal sopporto sono gli estremismi di chi attraverso il proprio computer da 5.000 euro sbraita di abbandonare ogni lusso.
Quello che ti consiglio di fare è di riflettere molto a lungo prima di acquistare una cosa, di farti alcune domande: mi serve davvero? Qual è il rapporto costo/beneficio in termini prettamente economici? Non mi conviene forse chiederla in prestito?
Comprare deve diventare un’azione cosciente e ragionata, non la futile gratificazione di una vita passata a lavorare.
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